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Archivio Sonoro

La festa di san Donato a Montesano, nel Salento, si svolge nelle giornate del 6-7 agosto, in una cappella all’estrema periferia del paese. La statua del taumaturgo, custodita di solito nella chiesa parrocchiale, per la festività viene trasportata nella cappella dove fin dall’alba del giorno 6 cominciano ad affluire malati di mente provenienti prevalentemente dalla provincia di Lecce. 
Si tratta di individui, per lo più donne, che accorrono all’appuntamento magico per implorare la grazia. La grazia non definitiva, ma ciclica, analoga a quella che si chiede a san Paolo per il tarantismo, ha la durata di un anno, per cui, trascorso il periodo di validità, il malato si trova di nuovo nella condizione di dover ricorrere al santo.
Il “male di san Donato”, comprende epilessia, disturbi nervosi vari, stati di ansia e manifestazioni psicopatologiche in genere, in gran parte determinati da insostenibili condizioni di esistenza. I pellegrini ritengono che il male sia inviato dal santo; collocandola così in una sfera extraumana, si sottraggono alla vergogna di una malattia che altrimenti fatta oggetto di disprezzo.
Sul “male” ecco alcune opinioni registrate durante la festa del 1965. Venditore ambulante di bandierine abituali (ventagli con immagini di santi, molti diffusi in Puglia e Sicilia): “il male di san Donato è un male che tiene un sacco di cose, attacchi di nervosismo, e poi è il male di san Donato diciamo noi. Il male di san Donato lo manda lui, il santo. Strillano di notte e di giorno. Di san Paolo quella è una taranta che ti pizzica, noi diciamo, quello viene così: una donna la pizzica e poi san Paolo la guarisce. Se ha una camicia rossa, una veste, e una è pizzicata da quello vermine rosso, quella maglia gliela strappano. Io credo che questa malattia la manda san Donato benedetto. … Tutte le malattie di nervi, tutte, le manda san Donato benedetto. Quelle di taranta san Paolo di Galatina, quelle di orecchia san Marco giorno 25 aprile. Ogni santo manda il suo male e tiene la sua devozione: santa Marina la testa; san Pantaleo i foruncoli; san Rocco è il patrono della peste e di tutti i mali che ci sono. San Giuseppe da Copertino fa anche i miracoli, san Giuseppe che volava, il padre di Gesù Cristo, tutti i santi non hanno niente ma lui (san Giuseppe) ci ha la polvere che la danno ogni anno”. Ragazzo di 12 anni, figlio di una malata di Galatina: “io credo che queste donne sono strane che stanno male veramente. Le malattie gliele manda il Signore”. Uomo di 48 anni, marito di una malata, di Cutrofiano: “il male di san Donato lo manda il nostro santo, lui lo manda e lui lo toglie. Lui vuole così; sceglie uno e gli manda il suo male. Lo manda a noi poveri per farci soffrire in questa terra e ricompensarci poi in Paradiso. Noi siamo poveri, ma siamo anche fortunati”.
Se queste risposte dimostrano chiaramente come fra gli individui a basso livello di istruzione non ci siano dubbi sulle origini e la cura del male di san Donato, diverso è l’atteggiamento manifestato dal parroco del paese, don F., un’anziano sacerdote di Montesano, che ha dimorato per lungo tempo in Lombardia. Don F., specializzato in psicologia, parla volentieri, senza reticenze, dicendo che il coraggio gli deriva dal fatto che non c’è provvedimento che la chiesa possa prendere contro di lui, perché “peggio di stare qui dove vuole che mi mandino”. “Qui ci vogliono medicine, un ospedale, scuole, non santuari. Io, personalmente, ritengo che questo male collettivo non sia il male caduco definito medicamente. Io penso si tratti di un fenomeno di isterismo collettivo, ma per molti non si può parlare neppure di questo. Da anni avviene che questa gente che viene a trovare il santo, davanti a questa statua, ha delle manifestazioni di vero e proprio isterismo, e perciò non si può parlare di mal caduco. Le caratteristiche del mal caduco sono molte chiare: per esempio, la convulsione, l’emissione di bava, l’insensibilità. Questo noi non si è notato; se li tocchi gridano, saltano, sono come invasati, invasati dalla miseria, dall’ignoranza”.
Il giorno 6 agosto 1965 ho assistito all’arrivo dei malati. Fino a qualche anno fa quasi tutti i malati venivano portati alla cappella su carretti trainati da cavalli; ora la maggior parte arriva su macchine prese a nolo. L’abito della cerimonia era bianco: veste lunga, lunghi mutandoni, calze; ora le donne hanno abbandonato l’abito rituale, tranne una, che seguita a vestirsi all’uso antico. L’afflusso degli ammalati prosegue ininterrotto tutto il giorno; scendono dalle macchine aiutati dai parenti o dai compaesani, qualcuno portato a braccia, molti sorretti. Arrivati al momento di varcare la soglia della cappella, avvengono sensibili mutamenti di comportamento: molti cadono a terra, pesantemente, privi di coscienza (almeno apparentemente); altri incominciano ad avanzare freneticamente sulle ginocchia, a rotolarsi per terra.
Alla fine della mattinata ha luogo una prima processione che si svolge in un clima disteso, in quanto i malati sostano nella cappella e non vi prendono parte se non eccezionalmente. Nel pomeriggio la statua del santo viene portata di nuovo in processione attraverso le strade del paese. Il santo esce dalla chiesa circondato dai malati, da quelli almeno che hanno la forza materiale e psicologica di seguirlo. Di tanto in tanto qualcuno lancia un urlo acuto, a lungo, sempre uguale. La processione giunge fino alla cappella, dove i malati e i loro parenti si preparano ad affrontare la notte. Molti devoti seguitano a buttarsi a terra, a gridare, a invocare la grazia, a percorrere il pavimento sulle ginocchia, strascinano sul ventre e sul dorso.
Nella serata, una donna di 45 anni, proveniente dalla provincia di Brindisi, contadina analfabeta, si abbandona a gesti di disperazione sotto lo sguardo commosso della vecchia madre e quello terrorizzato dei suoi figli di 4 e 7 anni. Un uomo di 60 anni, di Nardò, comincia a “predicare”. Verso le undici di sera tutti dormono: chi ha trovato posto all’interno; gli altri appoggiati ai muri esterni della cappella. All’alba la donna vestita di bianco si arrampica sulla base della statua e vi resta immobile. Poco dopo il parroco celebra la messa. Seguitano ad arrivare altri malati – ne ho contati 53, dei quali 16 uomini.
Due donne avanzano carponi e latrano come cani. Incominciano a verificarsi presunte guarigioni: i malati finalmente in pace, pregano, baciano la statua e se ne vanno. Ma la maggior parte attende l’ultima processione, quella che, verso le undici, riaccompagna la statua del santo nella parrocchia dove resterà fino all’anno successivo. Nel pomeriggio del giorno 7, la porta della parrocchia era sprangata; all’interno, come incantata davanti alla statua di san Donato, sedeva una giovane di 25 anni, contadina del Salento, terza elementare, afflitta dal “male” e devota particolarmente al taumaturgo. La donna, che da anni si reca a Montesano, non può partecipare al culto collettivo nella cappella; il suo attaccamento al santo e la gelosia che nutre per le altre fedeli sono tali che spesso, in passato, ha provocato vere e proprie risse. Così don F. le permette di avere un colloquio privato e solitario con il protettore. La giovane siede a terra, rivolgendosi sorridente alla statua ed emettendo mugolii; il suo volto esprime una grande gioia. Quando mi vede entrare si rivolge sorridente verso di me e, gemendo, mi addita la statua. Poi mugola verso il santo, gli lancia baci, traccia a terra dei circoli e si irrigidisce, atteggiando le proprie mani nel gesto benedicente della statua. Solo dopo un ora, convita a fatica dalla madre e dal fratello si allontana piangente. 
La carica sessuale presente nei partecipanti al pellegrinaggio è evidente; san Donato – una statua che raffigura un giovane adulto, con i capelli ricci e le gote rosse – piace moltissimo alle donne, le quali, nel corso delle due giornate festive, lo abbracciano, lo baciano, si arrampicano sulla base del simulacro.Alcuni anni fa – il fatto mi è stato raccontato da numerosi malati, che tuttavia non hanno saputo indicare la data esatta – un gruppo di fedeli decise di fare ridipingere gli occhi del santo, perché il suo sguardo era troppo penetrante e loro ne erano turbate. L’episodio potrebbe benissimo non essere mai accaduto, ma anche se si trattasse d’ una leggenda, sta ugualmente a testimoniare quali sensazioni suscitino tra le sue fedeli l’effigie di san Donato. L’ondeggiare lento dei corpi delle donne sul pavimento che agitano aritmicamente le gambe, il rotolarsi, e tutti quei gesti ed atteggiamenti del corpo non facile a descriversi, ma che comportano tale scompostezza da rendere necessario munire la malata di lunghe mutande, convalidano la tesi della componente sessuale.

San Nicandro Garganico è una modesta cittadina agricola di circa 16mila abitanti sullo sperone dello stivale della penisola italiana. È stata in un certo senso scavalcata dallo sviluppo del dopoguerra e non ha mai fatto parte del circuito turistico, o almeno non ha mai avuto nulla che potesse attirare i forestieri. Fino al 1931 non ci arrivava neppure la ferrovia.
A giudicare dalle foto che compaiono nella versione italiana di Wikipedia, non sembra molto cambiata dal 1957, quando la visitai incuriosito dall’argomento su cui John Davis ci offre ora un ottimo libro, conciso e ben scritto. San Nicandro ha fatto solo due apparizioni sul palcoscenico della storia. È stato uno dei primi centri del socialismo italiano e delle lotte contadine nella Puglia settentrionale: il capo politico locale, Domenico Fioritto, diventò il leader del Partito socialista italiano, nel 1921. Il sindaco attuale fa parte dell’ex Partito comunista (oggi Partito democratico).
La seconda comparsa di San Nicandro nel gran mondo fu molto meno significativa per la politica italiana, ma molto più importante a livello globale, anche se i titoli del dopoguerra sarebbero stati presto dimenticati. Il nome della cittadina era legato a un gruppo di contadini che negli anni trenta decisero di convertirsi all’ebraismo e alla fine emigrarono in Israele. John Davis non solo ha salvato gli ebrei di San Nicandro da oltre mezzo secolo di oblio, ma li ha usati per illuminare la straordinaria storia dell’Europa nel novecento.
Sul piano puramente quantitativo il fenomeno fu trascurabile: la polizia fascista, sempre all’erta, riferì di nove famiglie, per un totale di quaranta persone. Una trentina emigrarono in Israele nel 1949. Se invece di scegliere l’ebraismo questo gruppo di amici e parenti avesse aderito a una delle sette evangeliche – come gli avventisti del settimo giorno o i pentecostali – introdotte nell’Italia del sud dagli emigranti tornati dall’America, nessuno avrebbe prestato loro la minima attenzione. Li avrebbero considerati solo l’ennesima setta protestante.
In effetti è quel che successe nel 1936 quando il loro profeta, Donato Manduzio, ricevette una multa di 250 lire come “pastore protestante” per aver celebrato un servizio religioso non autorizzato. Appartenevano al mondo della religiosità rurale postbellica, ma le conventicole dissidenti erano molto più piccole dei culti miracolistici cattolici come quello che si sviluppò nella stessa regione e nello stesso periodo intorno a padre Pio di San Giovanni Rotondo. Anche se il Vaticano all’epoca era comprensibilmente scettico sulle stigmate del frate, papa Wojtyla lo ha proclamato santo.
Dove, se non da un compaesano pentecostale, Manduzio avrebbe potuto acquistare una copia della Bibbia in italiano, studiando la quale si convertì all’ebraismo? Come, se non nei dibattiti con altri evangelici – pentecostali a San Nicandro, avventisti del settimo giorno a Lesina – avrebbe potuto scoprire che gli altri sbagliavano, se non altro perché disubbidivano alla sacra scrittura prendendosi come giorno di riposo la domenica invece dello shabbath, ma soprattutto perché credevano, contro ogni verosimiglianza, nella seconda venuta del messia? Gesù poteva essere stato solo un profeta.
“Nei libri della Bibbia ebraica”, scrive Davis, Manduzio “scoprì un mondo di crudeltà e sofferenza, di falsi profeti, falsi idoli e false religioni che riconobbe come suo. Se il messia era già venuto sulla terra, perché tutte queste sofferenze e privazioni esistevano ancora?”. Si potrebbe aggiungere – credo sia già stato sottolineato nel primo studio serio sugli ebrei di San Nicandro, San Nicandro: histoire d’une conversion di Elena Cassin (1957) – che la vita di un contadino nel Vecchio testamento non sembrava poi così diversa da quella nella Puglia rurale dei primi anni del novecento, soprattutto considerando il ruolo chiave della transumanza in quella regione.
E così Manduzio si convertì al Vecchio testamento. A quanto mi risulta, il suo fu l’unico caso in Europa di un profeta di campagna convertito senza mediazioni all’ebraismo. Credeva che gli ebrei postbiblici si fossero estinti e sicuramente nel 1928 non sapeva che in Italia ne esistevano ancora. In un certo senso ricavò la forza della sua vocazione profetica dalla certezza che Dio stesso, con i sogni e le visioni in cui si manifestava, gli avesse affidato la missione di portare “le leggi dell’unico Dio” non solo tra la gente di San Nicandro, ma in un mondo che le aveva dimenticate.
È facile dimenticare questa vocazione universale, perché Manduzio ben presto scoprì l’esistenza di una vera comunità ebraica in Italia (probabilmente grazie a un ambulante che portava le notizie del mondo esterno nell’entroterra rurale) e, da quel momento, concentrò le sue formidabili energie sul compito di entrarne a far parte. Non che avesse avuto molto successo nel restaurare la religione: gli ebrei di San Nicandro non crebbero mai in modo significativo al di là del loro nucleo originale.
Non fu il comando del Signore, tuttavia, a dire a Manduzio quali erano le sue leggi, ma lo studio tenace e continuo della parola stampata di Dio. Come dimostra Davis, Manduzio e i suoi convertiti erano intellettuali di campagna nel senso che tutti loro – anche le donne, che sembrano essere state attratte dalla nuova religione più degli uomini – erano probabilmente capaci di leggere e scrivere, una situazione piuttosto insolita nel Mezzogiorno agricolo d’Italia.
Del gruppo facevano parte almeno due membri della corporazione più ricca di pensatori, i ciabattini. A quanto pare i convertiti non erano tanto contadini, quanto un gruppo che viveva negli interstizi e ai margini di un grande territorio agrario. Dal momento che erano tutti poveri, e alcuni lo erano disperatamente, nessuno gli prestava troppa attenzione.
Manduzio era chiaramente il fondatore e l’ispiratore degli ebrei di San Nicandro anche se, con suo grande disappunto, non fu mai il loro capo indiscusso. Era il classico eccentrico di campagna che, se avessimo l’opportuna documentazione, avrebbe potuto costituire uno splendido soggetto per uno studioso della grande scuola italiana di storia microcosmica. Ma documenti come quelli dell’inquisizione, che hanno permesso a Carlo Ginzburg di scrivere Il formaggio e i vermi, appartenevano a periodi precedenti.
Abbiamo delle informazioni sulle attività di Manduzio e conosciamo i suoi pensieri dal 1937 in poi perché in quell’anno cominciò a tenere un diario, che ancora oggi esiste unicamente come manoscritto. Ma per il resto dobbiamo affidarci ai rapporti della polizia e delle autorità ecclesiastiche che si preoccupavano di controllare i dissidenti religiosi e di altro tipo, e che consideravano gli ebrei di San Nicandro trascurabili. E poi ci sono i racconti di un numero crescente di osservatori e visitatori ebraici, troppo sorpresi dalla conversione per chiedere come fosse avvenuta. Per di più, alcuni di loro avevano altre, e più grosse, gatte ebraiche da pelare.
Al momento della rivelazione, Manduzio aveva superato i quarant’anni. Nato nel 1885 in una famiglia troppo povera per mandarlo a scuola, rimase analfabeta fino a quando fu chiamato a prestare servizio nel 94° reggimento di fanteria, dove contrasse una malattia non meglio specificata ma permanente e disabilitante. Fu la malattia ad assicurargli le basi della futura carriera: una pensione come ex militare sufficiente per tirare avanti senza lavorare e l’alfabetizzazione, conquistata durante la lunga convalescenza negli ospedali militari.
Diventò un lettore vorace dei melodrammi di ambientazione medievale, molto popolari nell’Italia del sud, e di romanzi come Il conte di Montecristo. Nel libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna (1959), ho scritto che durante una delle tante crisi della comunità ebraica “l’immagine che gli venne spontanea alla mente fu quella di re Pipino. Quando capì che Elisetta l’aveva tradito, il re voleva gettarla nel fuoco con le due figliolette avute con lei, ma fu fermato da chi gli era accanto”.
Manduzio era molto attratto dall’astrologia, ma non c’è segno di un suo interesse giovanile serio per i testi sacri. Non sappiamo quanto avesse approfondito i suoi studi biblici prima di avere l’improvvisa visione di essere scelto dal Signore che nel 1928 lo portò a convertirsi. Sicuramente essere stato scelto dal Signore lo incoraggiò a studiare di più la Bibbia, però continuò a basare la sua autorità spirituale sulle visioni e i sogni. Forse a convertirlo al Vecchio testamento fu il fatto che, a differenza di quanto avviene nel Nuovo, lì Dio fa frequenti apparizioni personali per affermare e ribadire il suo potere, per minacciare, punire e istruire.
La situazione personale di Manduzio lo collocava allo stesso tempo al centro e ai margini di un piccolo universo isolato. Era un adulto disabile, sposato ma senza figli, un pensionato che non doveva guadagnarsi da vivere lavorando e aveva il tempo e la voglia di riflettere sull’universo, perciò costituiva un’anomalia. Con la sua presenza quotidiana sulle strade e la sua capacità di conversare, ascoltare e fungere da biblioteca ambulante delle tradizioni locali, non poteva passare inosservato, tanto più che aveva una reputazione di consigliere e guaritore.
Nel Gargano, il dono di guarire non richiedeva competenze mediche come le intendiamo oggi, ma piuttosto la capacità di riconoscere le forze esterne o interne, le influenze cosmiche e le azioni personali ritenute responsabili della malattia, per poi esorcizzarle o contrastarle con riti propiziatori o penitenze. Le visioni erano il motore della diagnosi. Denunciare il peccato poteva curare la malattia. I miracoli erano sempre possibili. E il mondo stesso non aveva forse bisogno di una guida e di una cura? In un ambiente come quello, i contadini poveri cercavano in tutti i modi di avere accesso, direttamente o tramite intermediari, a un regno superiore alle difficoltà insormontabili della vita quotidiana. E di conseguenza esisteva una nicchia di potenziali seguaci per maghi e profeti.
La risposta di Manduzio a questa esigenza fu così insolita che non possiamo dare troppo peso alla sua conversione e a quella del suo minuscolo gruppo. Piuttosto, sembrava una minisecessione non millenaristica dall’universo del protestantesimo evangelico, sempre incline a generare sette. Era sicuramente molto meno significativa dei diffusi fenomeni di pratiche religiose non ufficiali che rivelavano quanto fosse sentita l’inadeguatezza della chiesa romana. Quest’ultima, peraltro, si rivelò molto abile nel neutralizzare l’insoddisfazione cooptando i culti dissidenti.
Gli ebrei di San Nicandro non erano particolarmente interessati alle questioni secolari. Con un’unica eccezione (il solito ciabattino), nessuno di loro era stato coinvolto in agitazioni, e le opinioni che esprimevano erano convenzionalmente patriottiche. Perfino dopo il 1945 si tennero lontani dall’ondata di attivismo di sinistra che percorse le campagne in quella zona della Puglia. La polizia li considerava assolutamente innocui. In effetti lo erano. Essere ebrei era l’unica cosa che avevano a cuore.
Non appena Manduzio scoprì che non tutti gli ebrei erano stati spazzati via dal diluvio come aveva immaginato, ma che in Italia ne esistevano ancora, il fenomeno di San Nicandro perse gran parte del suo interesse culturale e antropologico e si trasformò in una strana ma illuminante nota a piè di pagina della storia d’Europa nell’epoca del fascismo. La battaglia tenace e alla fine vittoriosa dei sannicandresi per essere riconosciuti come veri ebrei ha forti limiti come tema storico. È irrilevante per l’ebraismo italiano di quel periodo – la storia più ambiziosa, Gli ebrei in Italia a cura di Corrado Vivanti (1996), li cita appena – anche se non è una postilla senza conseguenze per lo sviluppo del sionismo italiano e per la nascita di Israele.
In fondo, gli ebrei di San Nicandro furono convertiti alla necessità di emigrare in Eretz Israel soprattutto da uno degli eroi dell’allora insolita minoranza sionista italiana, Enzo Sereni. Tutto a dispetto di Manduzio, che era contrario all’emigrazione, e del primo sostenitore di San Nicandro nella comunità ebraica ufficiale, Raffae­le Cantoni, che sembra aver formulato una valutazione molto più realistica delle peculiarità di una minisetta con radici locali. Eppure, per quanto insignificanti, le fortune di questo piccolo gruppo litigioso, facile alle scissioni eppure coeso al margine dei cataclismi degli anni trenta e quaranta, irradiano piccoli fasci di luce in quelle tenebre.
La promulgazione delle leggi razziali hitleriane da parte di Mussolini, nel 1938, non ebbe conseguenze particolarmente gravi per loro, ma gli rese ancora più difficile essere ufficialmente accettati come ebrei dalle autorità ebraiche, scettiche e sempre pronte a procrastinare, e che ora avevano questioni più urgenti di cui occuparsi. Fra il 1938 e il 1943 gli ebrei di San Nicandro furono probabilmente più isolati che in qualsiasi altro momento della loro breve storia. La caduta di Mussolini avvicinò la guerra al Gargano quando gli alleati distrussero il grande nodo delle comunicazioni di Foggia e portò per breve tempo a San Nicandro le colonne tedesche. Portò anche pericoli e ristrettezze.
Per la prima volta essere ebrei contava: se Costantino Tritto non si fosse tolto la stella di David che era fiero di portare sul risvolto della giacca, avrebbero potuto esserci gravi rappresaglie contro la città. Gli ufficiali tedeschi che curiosarono nella stanza di Manduzio con le sue iscrizioni e decorazioni ebraiche scatenarono il panico, ma fortunatamente andarono via e non tornarono. Ai tedeschi ben presto subentrarono le forze britanniche, che nel settembre 1943 risalirono la costa adriatica per liberare quello che rimaneva di Foggia.
Fu l’ottava armata a riportare la piccola compagnia di Manduzio nella storia mondiale. La Puglia, il tacco d’Italia, servì da base alle operazioni transnazionali degli alleati in un periodo cruciale, mentre le organizzazioni che sostenevano i movimenti di resistenza si spostarono dal Cairo a Bari per mandare rinforzi attraverso l’Adriatico utilizzando i campi d’aviazione locali. Le truppe britanniche rimasero bloccate a sud per vari mesi, in attesa che i tedeschi abbandonassero la loro efficacissima “linea d’inverno”. Ora tra loro c’erano alcune unità ebraiche non combattenti, in origine reclutate per la difesa dell’Egitto.
Mentre negoziavano con gli inglesi riluttanti per creare una brigata di combattimento ebraica, senza dare troppo nell’occhio lavoravano alla costruzione delle loro forze armate perché il futuro stato d’Israele potesse assumere il controllo della Palestina. Tra la massa dei rifugiati ebrei e degli altri “sfollati” che cercavano riparo nel Mezzogiorno d’Italia occupato dagli alleati, scoprirono anche – con stupore e sbigottita soddisfazione – gli ebrei di San Nicandro. I soldati diffusero la notizia tra i militari anglofoni, i reclutatori di Haganah furono pronti ad accettarli come potenziali emigranti in Israele, e gli ebrei italiani che si sentivano colpevoli per la debolezza di molti loro correligionari davanti alle leggi razziali poterono elogiarne la fede semplice ma tenace.
Enzo Sereni – una figura centrale del sionismo italiano e della Palestina sotto mandato britannico, che nell’aprile 1944 si preparava a partire per la missione segreta nell’Italia occupata dai nazisti in cui perse la vita – li considerò abbastanza importanti da meritare una visita e li incoraggiò a emigrare. Quando i tedeschi si arresero, il gruppo era ormai entrato a far parte del folclore dei corrispondenti di guerra, e raggiunse il picco della celebrità quando Time gli dedicò un articolo in occasione del capodanno ebraico del 1947.
La liberazione di Roma spinse le autorità rabbiniche ad accettare ufficialmente i sannicandresi come ebrei autentici. I maschi furono circoncisi nel 1946, anche se per qualche motivo Manduzio non volle farsi operare. Morì nel marzo 1948 rifiutandosi sempre di lasciare San Nicandro e ancora convinto “che siamo arrivati alla luce grazie alle visioni, proprio come avvenne a Mosè e a tutti i profeti, e che chiunque si rifiuti di credere o dica che le visioni non significano niente nega il Dio delle visioni e il Mosè del libro sacro delle leggi”. Visse abbastanza a lungo da salutare la decisione di creare lo stato di Israele.
Se e sotto quali auspici i sannicandresi potessero emigrare in Israele, come fecero quasi tutti nel 1949, rimaneva incerto. La cosa fu complicata dall’inizio della guerra fredda. La sconfitta della sinistra italiana nelle elezioni del 1948 non avrebbe fatto molta differenza per una comunità che non era mai stata coinvolta nella politica secolare, ma il rifiuto italiano di riconoscere lo stato di Israele, mentre la Russia l’aveva fatto immediatamente, rese sospetti agli occhi del governo democristiano i vari piani sionisti per mandare rifugiati ebrei in Terra santa.
Alla fine le pressioni dei sannicandresi prevalsero sull’opposizione all’emigrazione collettiva del loro primo e più leale sostenitore, Cantoni, in un certo senso l’eroe della storia di San Nicandro e un personaggio veramente eccezionale. Italiano, ebreo sionista, massone, socialista e antifascista, anche se a suo tempo era stato un giovane attivista dell’impresa dannunziana di Fiume, Cantoni merita senz’altro uno studio più approfondito.
Una volta trasferiti nella terra di Israele, gli ebrei di San Nicandro sparirono nell’anonimato storico della gente comune che si guadagna da vivere. John Davis racconta tutto quello che dobbiamo sapere, e forse di più, su quest’ultima fase di uno straordinario episodio della storia europea del novecento. The jews of San Nicandro, ottimo libro di un bravissimo storico, rimarrà quasi sicuramente la sua duratura testimonianza.

(dall’Internazionale n. 886, 25 febbraio 2011, ed. or. In The London Review of Books)

  

Con il termine "cucchia" si indica una coppia di ciaramelle suonata da un unico suonatore; entrambi gli strumenti hanno un numero di fori digitali, e quindi un'estensione, inferiore rispetto allo strumento solista; per ottenere ciò, i fori in eccesso vengono occlusi con della cera d'api. Sono accordate tra loro per terze: la ciaramella più grave viene chiamata 'maschio', quella più acuta 'femmina'. Viene sempre suonata in formazioni strumentali che prevedono una zampogna e una ciaramella solista; svolge prevalentemente un accompagnamento di tipo ritmico eseguendo note ribattute in controtempo e in sincope rispetto alla ciaramella solista.

Protagonista di assoluto rilievo della fotografia italiana, Franco Pinna (La Maddalena 1925 - Roma 1978), è stato innanzitutto un fotogiornalista le cui collaborazioni con Ernesto De Martino e Franco Cagnetta costituiscono un episodio di straordinaria importanza, anche ai fini della sua affermazione professionale, all'interno però di una carriera svoltasi per grandissima parte al di là della ricerca antropologica, con la quale non vennero mai stabiliti rapporti di carattere sistematico.
Dopo la militanza nella Resistenza romana e la partecipazione, come direttore di fotografia, al documentario Canto d’estate di Pier Luigi Martinori e Stefano Ubezio, si avvia alla professione costituendo, assieme ad altri colleghi, la cooperativa Fotografi Associati, ispirata al modello internazionale della famosa agenzia Magnum. La pratica della fotografia giornalistica viene concepita in parallelo a un'intensa militanza politica nella quale Pinna si distingue come attivista del Partito Comunista Italiano: nel 1952 a Roma riprende, con Tazio Secchiaroli, le cariche della polizia durante una manifestazione contro la NATO, con metodi da blitzphotographie che in seguito sarebbero stati ripresi, con tutt'altre finalità, dal cosiddetto "paparazzismo".
Nel periodo delle prime due spedizioni in Lucania al seguito di De Martino (1952, 1956), Pinna collabora con testate illustrate quali Paese SeraVie NuoveNoi DonneIl Mondo e RadioCorriereTV, per il quale è ingaggiato dal direttore Luigi Greci, padre della sua futura compagna di vita, specializzandosi nei servizi a colori e nelle cover. Negli anni Sessanta e Settanta sono invece L'Espresso e Panorama le riviste per le quali lavora più frequentemente, realizzando comunque numerosi réportages anche per importanti testate straniere come LifeSternSunday TimesVogueParis Match
Nel 1959 pubblica il suo primo fotolibro, La Sila, con testi di De Martino, a cui fa seguito, nel 1961, Sardegna, una civiltà di pietra, opere che bene chiariscono i termini dell'autonomia espressiva di Pinna rispetto alle ricerche antropologiche di De Martino. 
A partire dal film Giulietta degli Spiriti (1965), diventa fotografo di fiducia di Federico Fellini, del quale aveva già seguito le riprese de La strada. A suggellare il rapporto, l'uscita, nel 1977, del fotolibro Fellini's Filme, con la maggior parte delle immagini di Pinna, che consegue notevole successo internazionale.
Franco Pinna muore improvvisamente il 2 aprile del 1978. Fellini fu il primo a visitarne la salma. 
Le collaborazioni di Pinna con De Martino, che lo portano al suo seguito in Basilicata (1952, provincia di Matera; 1956, provincia di Potenza; 1959, S. Giorgio Lucano, Gioco della Falce) e in Salento (1959, tarantismo), s'inseriscono dunque come esperienze particolari all'interno di un'attività di fotoreporter che le ricerche antropologiche non riescono a snaturare, semmai obbligano a un adeguamento, ricercato sul posto secondo l'approccio empirico che contraddistingue buona parte delle spedizioni interdisciplinari. Apportò quanto andava maturando nel corso della sua formazione, con particolare riferimento ad alcuni interessi tecnico-formali quali la precoce specializzazione nel colore, nel modulo del fotodocumentario e nell'uso di formati speciali come il panoramico, per il quale si rivela probabilmente come il maggior specialista nazionale. Nelle foto sui maghi lucani o le tarantate salentine, emerge così la vena militante del reporter, incline verso forme di spietata analisi sociale e di costume e votato a una ispirata opera di denuncia civile, ma anche la ricerca formale dell'autore, capace di alternare la poetica dell'istante, cara a Cartier-Bresson, con le pose lunghe, le immagini isolate e le sequenze paracinematografiche, sempre in linea con una cura meticolosa nella resa di toni, dettagli ed equilibri compositivi. 
Nel 2002, l'Archivio Franco Pinna di Roma ha provveduto a catalogare i materiali realizzati in Lucania secondo criteri di filologia fotografica che nelle sue linee di principio rispecchiano "un certo modo di concepire e organizzare la pratica di lavoro" del fotogiornalista: "si sceglie la ripresa, si scatta, si sviluppa, si provina, si selezionano ed eventualmente si riquadrano i provini, si stampa in modo più o meno variabile (per formato, tipo di carta, per modalità di resa ecc.) a seconda della destinazione prevista, in certi casi si ritocca. Il risultato finale di questo processo è la fotografia del fotogiornalista, il testo da lui configurato in un certo modo e non in uno degli altri mille e più possibili" (G. Pinna, Con gli occhi della memoria. La Lucania nella fotografie di Franco Pinna 1952-1959, Trieste, 2002, p. 9). Se, dunque, in quanto documenti tutti i materiali in questione possono essere accomunati comodamente in un'unica categoria, da un punto di vista più strettamente fotografico essi vanno considerati tenendo conto della basilare distinzione fra ripresa (la risultanza documentale di quello che il linguaggio ordinario chiama "scatto") e fotografia (ripresa selezionata ed eventualmente configurata dal fotografo nell'intento di determinarla come specifico testo visuale). In queste sede, i materiali lucani di Pinna, suddivisi secondo il succedersi delle spedizioni demartiniane, sono stati distribuiti in due distinte raccolte per ognuna delle due principali spedizioni: nella prima, Fotografie e riprese, compaiono i testi visuali riconoscibili come tali, sulla base di evidenze documentali che testimoniano delle scelte dell'autore, e altre riprese in relazione con essi; nella seconda, denominata Provini, sono invece visibili le stampe a contatto, preliminari ai testi della sezione precedente, che documentano della loro elaborazione.

 

scaldaferriEtnomusicologo dell'università di MIlano, dove dirige il LEAV (Laboratorio di Etnomusicologia e Antropologia Visuale), Nicola Scaldaferri ha cominciato a effettuare registrazioni sul campo sulla musica lucana a metà degli anni ’80, partendo dalla tradizione di S. Costantino Albanese, il paese arbëresh di cui è originario, in parallelo con l’attività di suonatore di strumenti tradizionali che lo vedeva spesso presente nelle feste locali.

Dal 1998, alle registrazioni sonore e alle fotografie, ha aggiunto anche le riprese audiovisive. A partire dal 2006 svolge le sue ricerche prevalentemente nell’ambito dell’attività del LEAV. 

Tra gli esiti editoriali delle ricerche in Basilicata, si segnalano i cd book pubblicati presso le edizioni Nota, Udine, e soprattutto il volume fotografico con cd, realizzato con il fotografo Stefano Vaja, Nel paese dei cupa cupa. Suoni e immagini della tradizione lucana (Squilibri 2005).