Fondo Montinaro (265)
Tra poesia e canto, una ricerca esemplare.
I documenti raccolti in questo Fondo nascono da una ricerca sulla cultura popolare da me cominciata negli anni Sessanta ma espressa in modo più massiccio e determinato dall’anno 1974 all’anno 1978. Teatro della mia indagine era il Salento e in modo più mirato la cosiddetta Grecìa salentina. Sono raccolti qui documenti inerenti la canzone popolare, la poesia orale, i racconti, le invocazioni e le filastrocche. La ricerca è nata per il mio desiderio di verificare e studiare un certo numero di temi, concetti e valori così come erano diffusi e concepiti nell’ambito della classe contadina onde rilevare alcuni dati strutturali della mentalità popolare. Quando mi sono impegnato nell’impresa ho scoperto subito, a causa della necessità di reperire cantori e informatori, che la gente non cantava più. Mi si è presentato all’orizzonte un panorama molto diverso da quello che era presente nella mia memoria e relativo soprattutto agli anni in cui io abitavo ancora nel Salento e cioè gli anni Cinquanta e in parte gli anni Sessanta del secolo passato.
Il decennio precedente a quello della mia ricerca più significativa avvenuta negli anni Settanta aveva devastato la capacità delle "classi subalterne" dell’epoca di mantenere una propria cultura. In quegli anni si verificò un grande rimescolamento della popolazione italiana. Si era verificata, probabilmente a causa del cosiddetto "boom economico" durato fino alla crisi petrolifera del 1973, una fuga da se stessi. Più che una fuga un tentativo di fuga perché le cose in questo ambito non cambiano così rapidamente come si spera. Avvenne, come disse Pier Paolo Pasolini, un vero e proprio cambiamento antropologico. I contadini non amavano più la campagna e sognavano di diventare operai nelle fabbriche del nord, gli artigiani sognavano di essere impiegati, gli impiegati sognavano di diventare dirigenti.
Bisognava, per raggiungere lo scopo, abbandonare quanto prima l’uso del dialetto, la lingua che era loro naturale, le tradizioni "retrograde". Tutto ciò che poteva tenere ancorati ad una situazione che ricordava il passato andava assolutamente abbandonato, nascosto, modificato.
Nessuno più cantava. E la lingua per comunicare era diventata un grottesco italiano, molto prossimo al dialetto per forma, strutture e lessico. Traducendo dal dialetto si finiva con il parlare un italiano incerto e inespressivo che inibiva la possibilità della scelta e quindi della protesta. L’ortografia di certi scriventi raggiungeva il comico.
Nessuno più cantava.
Nei campi non era più dato ascoltare quelle voci straordinarie che cantavano alla stisa per essere udite dai campi vicini, avere una risposta e stabilire così un dialogo a distanza che, oltre al piacere del canto, poteva contenere messaggi e informazioni pratiche tra i dialoganti. Maschi e femmine.
Nessuno più cantava.
Le serate d’estate con quelle belle ronde che vedevano alternarsi al canto voci maschili e femminili mentre il resto della compagnia dei vicini, seduti su sedie portate da casa o sui gradini dell’abitazione, si beavano e si preparavano al loro turno di canto, non esistevano più oppure erano diventate una rarità.
Le corti delle case erano molto spesso vuote. Non risuonavano più delle voci di chi le aveva abitate. Ora i pochi rimasti, sfuggiti all’emigrazione, seduti fuori per prendere il fresco della sera bisbigliavano problemi, preoccupazioni quotidiane, informazioni sui parenti emigrati.
Chi continuava a cantare obbiettivamente non aveva subito alcuna "evoluzione". Cantava chi era seduto sugli ultimi gradini della scala sociale. Persone spesso meravigliose. Piene di affetto e di vitalità ma considerate dalla comunità in cui vivevano certamente ai margini per non essersi modernizzate, per essere rimaste "incolte".
In queste "periferie" bisognava dunque cercare se si voleva entrare in contatto con quegli esseri umani che ancora erano in grado di raccontarci un modo di vivere antico ed eterno che ormai scompariva per lasciare il passo ad una umanità di frenetici esseri preoccupati solo di consumare, di riempire le loro case di elettrodomestici sui quali regnava, re incontrastato, il televisore. Sistemato in un angolo della casa, su un alto trespolo come fosse un trono, con il suo occhio spento durante le ore diurne aspettava le ore serali per masticare ben bene le anime di coloro che fideisticamente gli si consegnavano.
Negli anni Settanta c’era in Italia un movimento di folk revival affidato ad alcuni intellettuali di sinistra che utilizzavano la canzone popolare e il dialetto in cui si esprimeva come strumenti di lotta politica. Le iniziative si moltiplicavano. I gruppi nascevano. Primo fra tutti il Nuovo Canzoniere Italiano. Voci solitarie e straordinarie come quelle di Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Giovanna Marini e Rosa Balistreri testimoniavano con il pathos e la forza dell’esecuzione un’opposizione forte ad un mondo che stava soverchiando la classe subalterna stravolgendone i connotati e la cultura.
Tutto questo però nel Salento non c’era o non era ancora arrivato come avrebbe dovuto. Forse era giunta solo una sottile, flebile eco. La tradizione del canto popolare salentino comunque non era rappresentata da una realtà forte e consapevole. Nel panorama discografico del tempo non esisteva traccia evidente del patrimonio di canti del Salento. Nella serie antologica curata da Roberto Leydi Italia, voll. 1, 2, 3 e 4 della Albatros pubblicata tra il 1970 e il 1971 appare solo un brano di pizzica tarantata registrato a Nardò da Diego Carpitella e lo stesso Leydi nel 1966. Mentre nei due Lp usciti nel 1973 con il titolo Folklore musicale italiano con registrazioni originali di Alan Lomax e Diego Carpitella, versione italiana dell’antologia pubblicata in America nel 1957, vi sono solo due documenti: uno di pizzica registrato a Taranto e un canto degli spaccapietre registrato a Martano.
Nelle due principali collane discografiche che allora si occupavano di canzone popolare, una di riproposta e tesa al consumo (Cetra), l’altra di proposizione di documenti originali molto più specialistica e metodologicamente corretta (Albatros), non appariva ancora nessun disco dedicato al Salento.
Allora, i pochi che si interessavano dell’argomento, avevano notizia di ricerche compiute negli anni Cinquanta (giugno 1954 - agosto 1957) da Alan Lomax e Diego Carpitella, da Ernesto De Martino e da qualche altro occasionale ricercatore ma non avevano assolutamente la possibilità di fruire delle loro registrazioni. Quelle di Lomax e Carpitella, oltre 3000 documenti riguardanti l’intera Italia, furono depositate presso l’Archivio del Centro nazionale di Studi di musica popolare dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e della RAI e lì praticamente sepolti fino a pochi anni fa quando in parte son tornati a rivivere grazie all’impegno dell’editore Squilibri e di un etnomusicologo come Maurizio Agamennone.
Nel panorama desertico salentino appena delineato, lontano, ai margini dell’impero, spesso sconfortante e assonnato ho pensato di pubblicare per Albatros una parte dei documenti della mia ricerca condotta nelle terre salentine con l’aiuto in loco di Luigi Chiriatti.
Per questo Archivio ho catalogato invece tutti i documenti della cultura orale salentina da me registrati suddivisi per generi. Sono convinto che sia il modo migliore per capirne il senso e per reperirli più facilmente. Ho pensato inoltre di creare quattro monografie per quattro cantori speciali. Quattro persone che ai tempi della ricerca mi avevano colpito, ciascuna a suo modo, per delle caratteristiche eccezionali: qualità vocali, conservazione in loro di un mondo passato ancora vivo, rappresentatività, memoria e spirito. Niceta Petrachi detta la Simpatichina, Rocco Gaetani, Cosimino Surdo e i cosiddetti Ucci di Cutrofiano.
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