Questo sito utilizza cookies, anche di terze parti. Per proseguire devi accettare la nostra policy cliccando su “Sì, accetto”.

Archivio Sonoro

Può sembrare paradossale che un gruppo nato con una ipotesi teatrale che non ha rinnegato come progetto (tant’è che la porta ancora nel nome) faccia della musica popolare, incida un disco di musica popolare. Tanto più sembrerà paradossale quanto più un certo recupero mercificato di questo aspetto della cultura popolare, la musica, ha inciso nella coscienza culturale, riproponendo l’immagine dei campi separati: musica, ballo, artigianato, cucina ecc. In effetti il recupero ha privilegiato un terreno che si presentava con maggiori opportunità di consumo; è avvenuto su dei fenomeni culturali che si prestavano a fornire prodotti staccati da un vissuto e da un contesto creativi astraendo così, da una complessa realtà socio-culturale di classe, un’immagine artificiosa di "prodotti" atti ad essere posti su un "mercato" che li scambiasse come "consumo", secondo la logica dominante: quella stessa che si vuole presentare come unica logica, la logica del mercato capitalistico. 
Il paradosso sta nell’accettare questa come unica logica esistente, con le conseguenze ideologiche che ne derivano. Nella realtà il gruppo ha percorso le tappe di una sperimentazione teatrale maturata in una città meridionale, stimolata dalla conoscenza di quanto si andava facendo altrove, fuori da esigenze e condizionamenti professionistici e tentando di affermare una autonomia espressiva, legata al territorio della propria esperienza. (La città è un insieme di ghetti-territoriali, sociali, culturali. Le tappe della maturazione avvenivano all’interno di uno di questi ghetti, quello della comunicazione intellettuale). 
E' passata per la ricerca di cantina, con un rapporto col pubblico tradizionale in una successione di rispecchiamento-negazione del rispecchiamento; per l’uscita dalla cantina e l’incontro col quartiere, soprattutto con un’attività di animazione teatrale, in uno scontro con un vissuto quotidiano, che non era quello del collettivo e che, sotto uno spessore di massificazione, lasciava trasparire un rimando culturale diverso. Nello stesso tempo si sviluppava un incontro con alcune componenti dell’Università di Salerno, in particolare con le cattedre di Antropologia culturale, Lettere e Storia del teatro e dello spettacolo, Magistero e Lettere, che perfezionava la maturazione e limitava lo spazio a velleitarismi. 
Un primo spettacolo di musica popolare, la Ricerca 1, utilizzava materiali riproposti e adattati da folksingers e in gran parte non tratti dalla realtà geografico-culturale vicina. Questo confermava in maniera sottile il ghetto culturale dentro il quale si operava: anche in un momento di rottura culturale, di apertura a un nuovo vissuto, la elaborazione produttiva ripeteva gli schemi presenti nel ghetto, secondo un canone di comunicazione culturale intellettuale. La contraddizione era tale che non poteva non esplodere: l’antico metodo di scoperta del reale negava la stessa realtà che andava scoprendo. 
L’asse portante della ricerca del gruppo mai più relegato e irrinunciabile divenne la ricerca sul campo - metodologia di confronto con una cultura diversa - per la individuazione di un suo ruolo specifico nel territorio. La conseguente elaborazione non poteva essere uno spettacolo o almeno, in una prima fase, non poteva esserlo da solo. Si trattava di ridurre lo spessore della parete del proprio ghetto, di renderlo trasparente all’altro, prima che l’uso mercificato del folclore non rendesse questo un prodotto incanalabile in ogni ghetto. Si trattava altresì di rompere l’isolamento della cultura che si veniva indagando fornendole un nuovo tramite di comunicazione, stimolando nuovi momenti creativi e comunicativi sulla base del vissuto quotidiano. 
La sintesi, l’obiettivo, il progetto era sempre quello di lavorare per una totalità dell’atto politico, troppo spesso separato dal vissuto, condizionato dai mass media, negato nel suo rapporto con le radici culturali. Con la consapevolezza, allo stato della ricerca comune, che quella era l’unica strada aperta per evitare di ricadere in una comunicazione settoriale o peggio nell’assenza di comunicazione, l’unica strada da percorrere fino in fondo anche a rischio di profonde lacerazioni, il gruppo si è rivolto, da una parte, al tradizionale pubblico con strumenti elaborati di volta in volta, per comunicare la radicale presenza dell’altra cultura (superata l’antica coppia rispecchiamento-negazione del ripecchiamento), dall’altra, si è espresso con il nuovo pubblico, non più pubblico, ma aggregato sociale che andava contattando nella ricerca sul campo, in un rapporto di scambio stimolante e creativo per entrambi, in una successione di azioni difficilmente definibili con il tradizionale linguaggio dello spettacolo, fossanche partecipativo, se non al prezzo di falsarne la portata. 
Questa attività appare difficilmente configurabile nella sfera d’azione e nelle finalità del tradizionale folk-music revival. Così la scelta di una limitata area geografico-culturale di indagine e rapporto, per una tensione a comprendere i ruoli dei momenti espressivi nel contesto comunicativo in cui vivono, più che raccogliere i materiali per una riproposta di rigore filologico o di mediazione politica, nelle migliori operazioni, se non per un uso consumistico o borghese cui per tanta parte il folk-music revival si è prestato. Così la conservazione del progetto teatrale d’origine, dove però l’oggetto che è sotto la parola “teatro” diveniva traboccante tanto da rompere la delimitazione tradizionale e porre il problema dell’antropologia comunicativa. Questo progetto così ambizioso e in parte utopico, che rompe con le divisioni di campo che confermano i ghetti e pone il problema della totalità, costituisce la pratica decisiva del gruppo. La ricerca sul campo diviene non un fatto che sta prima dell’azione specifica del gruppo, un rinvenimento e catalogazione di materiale da riproporre o studiare, o non solo questo; essa diviene l’attività privilegiata sulla base di uno scambio di gruppo a gruppo, da punti di partenza culturalmente diversi, ma senza complessi pupulistici di inferiorità, in una comune condizione di subalternità l’uno, un gruppo di base isolato e non istituzionalizzato, dagli ambiti comunicativi limitati dal ghetto e dal mercato; l’altro, una componente di una vasta classe di esclusi, sfruttati, negati. 
Il collettivo, ambizione utopica e in qualche modo velleitaria della primitiva ricerca sperimentale sul teatro, diveniva la dimensione essenziale ed insostituibile di una attività che non era del ricercatore specialistico, né del falco di mercato, ma la struttura di una nuova ricerca pratica di gruppo per il cambiamento. Ciò che era velleitario nel ghetto offriva, fuori di esso, la possibilità fondamentale della comunicazione culturale diversa, quella per gruppi omogenei, al di fuori del dominio del mercato che vuole individui atomizzati di fronte al prodotto, i consumatori. Né d’altra parte si è pensato di abbandonare le proprie radici culturali e il tradizionale termine di raffronto, il pubblico intellettuale. 
La difficoltà sta nella elaborazione di un linguaggio non ghettizzato che eviti la trappola della rarefazione senza essere banale e immediatamente consumabile, che riproponga l’omogeneità laddove il mercato la neghi e rifugga l’omogeneità che il mercato forma; ma questa è la difficoltà di definire lo spazio di una nuova cultura costruita sull’unità e sul progetto politico di tutte le classi e i gruppi antagonisti della società. Ma tutto questo è in contrasto con la raffinata tecnologia del disco che fa giustizia della diversità e vuole il prodotto omogeneo e il momento unico. Più in generale, perché un disco? Non è esso un oggetto di quel mercato che si proclama di contrastare? Il disco non è passato senza scontro nell’esperienza del gruppo, che ha colto nel suo allestimento la sensazione di un passaggio da una esperienza originale ad una riproposta filologica che avviliva le stesse peculiarità del gruppo. Si è trattato però solo di sensazione di rischio, non di coscienza di tracollo. Se la tecnologia non è neutra, essa non è neppure completamente asservita al mercato: fronti di lotta sono aperti per l’uso sovversivo della tecnologia.

Il Teatrogruppo
[dal libretto allegato al disco Musica Popolare del salernitano, ed. Abatros 1975]

Con il termine "cucchia" si indica una coppia di ciaramelle suonata da un unico suonatore; entrambi gli strumenti hanno un numero di fori digitali, e quindi un'estensione, inferiore rispetto allo strumento solista; per ottenere ciò, i fori in eccesso vengono occlusi con della cera d'api. Sono accordate tra loro per terze: la ciaramella più grave viene chiamata 'maschio', quella più acuta 'femmina'. Viene sempre suonata in formazioni strumentali che prevedono una zampogna e una ciaramella solista; svolge prevalentemente un accompagnamento di tipo ritmico eseguendo note ribattute in controtempo e in sincope rispetto alla ciaramella solista.

Con il suo senso dello humour, con il suo scetticismo piemontese, con il gusto dell'aneddoto per cui andava famoso, avrebbe riso con me della sua sorte: Roberto Leydi è morto nel tardo pomeriggio di un sabato e proprio di quel sabato in cui si svolgevano a Roma e nel mondo le grandi manifestazioni per la pace. Il giorno dopo e anche il lunedì successivo le pagine dei giornali erano dedicate a quegli eventi e solo nel giro di alcuni giorni i grandi quotidiani hanno commentato la scomparsa di questo singolare e indimenticabile personaggio. Ma si sa, quando la notizia non è più fresca, al massimo si dedicano allo scomparso una colonna o due , anche se, come è accaduto con "Repubblica", le due colonne erano firmate Luciano Berio. Mi diceva un giorno Roberto: «Non bisogna mai morire di ferragosto, non se ne accorge nessuno». Ecco. Ma devo dire che ho trovato su Internet molti e commossi ricordi, da parte di tanti cultori della musica popolare. 
Molti non lo sanno, ma quando cantano sulla chitarra antiche canzoni operaie o contadine, e altri reperti di un mondo ormai scomparso, lo debbono a Leydi, che è andato con insaziabile curiosità e pazienza certosina a registrare quel patrimonio musicale dalla viva voce di testimoni anche vecchissimi. E poi ha fatto circolare le sue scoperte attraverso libri, dischi, e scorribande teatrali per tutto il paese, facendole sovente cantare da sua moglie, quella Sandra Mantovani di cui negli anni Sessanta avevo scritto che aveva un «duende padano».
Di Leydi etnomusicologo si parlerà ancora a lungo. Ma questa attività (che l'aveva portato a diventare professore ordinario al Dams e ad appassionare a questi temi tanti giovani) rappresentava la punta dell'iceberg Leydi. Per quanto mi riguarda, lascio la parola agli esperti, e continuerò a cantare tra me e me le canzoni che ho appreso da lui - e mi rammento che una sera a casa sua ci ha fatto sentire il nastro, su quegli immensi registratori di allora, che aveva registrato non so dove, in qualche balera, dicendo che si doveva prestare attenzione alla voce di quella ragazza ancora ignota, che si chiamava Mina. Vorrei invece ricordare altri aspetti di Leydi. 
Per esempio un anno fa aveva pubblicato "Gelindo ritorna. Il Natale in Piemonte" (Omega edizioni) per cui mi aveva chiesto una prefazione-testimonianza fatta di ricordi personali. In molte città piemontesi, da quasi due secoli si rappresenta a Natale una commedia dialettale, che narra di come il pastore Gelindo e la sua famiglia assistono alla nascita di Gesù, in una zona imprecisa tra il Tanaro e Betlemme. L'unica ricostruzione che si ricordi dei testi originali (ma ormai in vari posti come ad Alessandria, questa rappresentazione per metà sacra e per metà comica, si recita a braccio su canovacci tramandati oralmente, come accadeva per la commedia dell'arte) era "Il Gelindo" di Rodolfo Renier, del 1896.
Leydi è andato alla ricerca dei vari testi, diversi per città e provincia, ha ricostruito la storia del Gelindo, ha ritrovato manifesti, musiche, documenti iconografici, dedicando persino un dotto capitolo alla piva di Gelindo (Leydi era espertissimo di zampogne). La ricerca sembra immane, ma non a chi conosceva Roberto e aveva visitato la sua casa, un vero e proprio museo dell'inatteso. Leydi era un collezionista delle cose più strane, di quelle che la gente non pensa a collezionare, e a giudicare da quello che sto per raccontare lo era sin da piccolo.
Infatti a metà degli anni Cinquanta io ero giovane funzionario della televisione di Corso Sempione e prendevo sessantamila lire al mese. Leydi, che collaborava alla Rai e aveva quattro anni più di me, mi raccontò un giorno che aveva deciso di lavorare sino a che guadagnava trecentomila lire al mese, e poi si divertiva. Se si calcola che entro poco sarebbe apparsa la Seicento Fiat che costava seicentomila lire, trecentomila era un bella sommetta. Come la realizzava Roberto? Affittando dischi alla Rai. C'era bisogno per qualche trasmissione del primo discorso di Roosevelt, della registrazione della celebre trasmissione di Orson Welles sui marziani, della radiocronaca in diretta della tragedia dello Zeppelin, della prima canzone cantata, che so, da Marlene Dietrich? Leydi a casa sua aveva il disco o il nastro. Dove scovasse tutte quelle cose non l'ho mai saputo. Ma lui le aveva.
L'anno scorso ha tenuto per la Scuola Superiore di Scienze Umanistiche di Bologna una serie di lezioni sulla "Musica di Weimar". Ci ha fatto rivivere, attraverso brani musicali sempre originali, commoventi e sublimi nel loro gracchiare a settantotto giri, tutta la storia di un'epoca, collegando Kurt Weill alla musica dodecafonica, alle vicende politiche, alla letteratura dell'epoca. Una esperienza indimenticabile. Con leggerezza, gaiezza, sicurezza di giudizio critico, senso del teatro e documentazione eccezionale, ci ha dato l'ultima possibilità di intrattenerci con lui, conversatore dotto e trascinante. 
Ciao, Roberto, anzi, "ciau".

(L’espresso, 6 marzo 2003)

Pezzi di cultura locale italiana saranno custoditi e studiati in Svizzera. All' apparenza sembra un paradosso ma è quanto è successo. Si tratta di 649 strumenti di musica popolare, 1.045 nastri con oltre 3 mila inchieste sulla cultura folclorica, 10 mila dischi e cd, 6 mila volumi: da pochi giorni questo imponente patrimonio, uno dei più importanti a livello europeo nell' area della cultura popolare, è andato ad arricchire i fondi del Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona. Lo ha deciso chi lo aveva pazientemente raccolto nel corso di anni di lavoro e di una feconda esistenza di ricerche e di studi dedicati all' etnomusicologia: l' italiano Roberto Leydi. Con una scelta che sta già facendo discutere, lo studioso ha infatti deciso di donare il suo intero archivio, finora custodito nelle sue case di Orta e di Milano, al Dipartimento dell' educazione, della cultura e dello sport del Canton Ticino. Leydi è lo studioso che con maggior forza ha contribuito a rinnovare il panorama dell' etnomusicologia italiana. A partire dagli anni Cinquanta ha svolto infatti una capillare ricerca intorno alla musica, al canto e alle usanze popolari sul territorio nazionale. Non solo: lo studioso piemontese (è nato a Ivrea) ma che da tempo lavora a Milano, ha raccolto testimonianze anche in Grecia, in Francia, in Spagna, in Scozia e in Nord Africa, accompagnando questo lavoro con la promozione di tutta una serie di iniziative editoriali e discografiche. La sua collezione è ora in fase di sistemazione nel Centro ticinese diretto dal Franco Lurà, che da anni lavora al grande progetto del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana e che coordina i dieci musei regionali del Ticino. Nella prima fase, il Centro ticinese provvederà alla catalogazione di tutto il materiale, in seguito procederà al riversamento delle incisioni su supporto digitale in modo da garantirne la conservazione nel tempo. Nel laboratorio di restauro si stanno passando in rassegna i preziosi strumenti, che sono per oltre la metà italiani. Stravaganti e curiose, le forme di questi oggetti ci riportano a tradizioni spesso dimenticate. Si va dagli idiofoni, che riuniscono 115 varietà di campanacci, scacciapensieri, castagnette, raganelle, crotali, triangoli e sonagliere, ai membranofoni, una sessantina tra tamburi a frizione e a percussione. Ci sono 38 cordofoni, quali liuti, chitarre, lire, banjo, ghironde e arpe, e 438 aerofoni, come flauti, ocarine, fischietti, organetti, zampogne, fisarmoniche e richiami da caccia. Insomma, secoli di espressione musicale popolare raccolti da Leydi e affidati ad un istituto che ha dato le giuste garanzie, ossia la volontà di restaurare, custodire e studiare questo materiale. Ma se rassicura gli studiosi, la sistemazione svizzera apre però gravi interrogativi sulla fuga dal nostro Paese di fondi e patrimoni, che, a torto o a ragione, si ritiene possano essere meglio valorizzati all' estero. Tanto più che Leydi ha insegnato all' università di Bologna ed è stato promotore dell' ufficio per la cultura popolare della Regione Lombardia, dove ha pubblicato i fondamentali volumi della serie Mondo popolare in Lombardia, una sintesi esemplare del folclore della regione. Per il Centro ticinese il nuovo acquisto segna un brillante risultato, che peraltro consolida il rapporto tra le due «Lombardie», di qua e di là dal confine. Per le amministrazioni pubbliche e le università italiane rappresenta invece l' ultimo episodio di un fenomeno allarmante sul quale appare urgente interrogarsi.

(Corriere della Sera, 23 novembre 2002, pag. 55)

Come ha scritto la sociologa Myriam Castiglione (1946-1982) “tutta la parte settentrionale della Puglia (Gargano e Capitanata) pullula di visionari e guaritori” (“Sogni, visioni e devozioni popolari nella cultura contadina meridionale”, in Gustavo Guizzardi e altri, Chiesa e religione del popolo: analisi di un’egemonia, Claudiana, Torino 1981, pp. 75-103 [p. 76]). I casi di “cattolicesimo di frangia” acquistano nella provincia di Foggia particolare rilievo e meritano un cenno particolare.
Secondo la stessa Castiglione, Domenico Masselli (1922-1994), di Stornarella (Foggia), è stato l’“esponente più noto” del visionarismo della Capitanata (Eadem, I professionisti dei sogniVisioni e devozioni popolari nella cultura contadina meridionale, Liguori, Napoli 1981, p. 122). Nato a Stornarella il 26 febbraio 1922 in una famiglia di contadini, devoto alla Madonna della Stella che si venera nel suo paese natale, il 2 dicembre 1959 Domenico ha – secondo il suo resoconto – una prima apparizione della Madonna nella sua camera da letto. Da allora e fino alla morte, nel 1994, le apparizioni e i colloqui con la Madonna e con Gesù Cristo sono frequentissimi; i fedeli li hanno in parte raccolti in un volume a circolazione privata. Il volume fa stato anche di diciannove “giuramenti” in cui Domenico avrebbe dovuto riconfermare il suo impegno e la sua accettazione della missione di profeta. Si tratta di poesie in uno stile popolare ingenuo. Così, per esempio, nel decimo giuramento Domenico afferma: “Vorrei lottare forte/incutendo gran terrore/vorrei sempre difendere/il mio buon Signore./Maledetti che voi fate/arriva il giorno che le pagate/le pagate con gran peso/perché fate tanto offesa./Sono sceso già le scale/sono molto stanco/in ogni occasione/difenderò la mia missione./Mi avvierò da solo/nessuno se ne accorgerà/mi avvio allegramente/verso il giuramento./Io ricordo questo punto/dove un giorno lottai/lottai forte e arrabbiato/e dal Cielo fui premiato”.

(…) Intorno a Domenico Masselli si costituisce fin dagli anni 1960 una comunità animata da fatti giudicati miracolosi. Così, nell’ottobre del 1964, durante un pellegrinaggio a Pompei il Signore appare a quattordici fedeli di Stornarella, compresi Domenico e sua moglie (il profeta era infatti sposato e con sei figli). A poco a poco la comunità sale fino a circa trecento persone, che si radunano i primi tre venerdì del mese in attesa di una manifestazione miracolosa della Madonna in un vecchio locale (forse una ex stalla) che non manca di elementi spettacolari: una “grande stanza (...) divisa in due e dietro una specie di basso cancello” con un “vero e proprio spazio sacro a cui potevano accedere solo i devoti più vicini a Domenico”. Qui si trova “un altare riccamente addobbato e un quadro della Madonna, la cui iconografia è stata rivelata – afferma Domenico – nel corso di una visione”. “Ai piedi dell’altare i fedeli depositavano le lettere indirizzate alla Madonna, corredate da normale affrancatura; a queste lettere la Madonna avrebbe risposto per bocca di Domenico. In un angolo di questo recinto, contro il muro, era posta una specie di cella-confessionale con un finestrino rivolto verso il pubblico: dentro questa cella, Domenico riceveva le visite della Madonna e dal suo tetto scoperchiato si sollevava in levitazione”. Domenico entrava nella cella con una sorta di rituale e “dopo diverso tempo dall’ingresso nella cella (...) cominciava a sollevarsi in aria, tra la meraviglia generale, rimanendovi sospeso per alcuni istanti”. Quindi usciva dalla cella, apriva le lettere e scriveva le risposte, “eseguendo come sotto dettatura” e concludendo con un messaggio della Madonna per tutti (così M. Castiglione, ibid., pp. 123-125). Nel 1976 la crescita del consenso (un migliaio di persone) permette la posa della prima pietra di un vero e proprio oratorio, che è inaugurato il 20 marzo 1977 con discorso elogiativo del sindaco ma senza la partecipazione del clero, che rimane diffidente e si limita ad accogliere i pellegrini in una celebrazione, nettamente separata, nella Chiesa madre. In realtà, fra il 1976 e il 1977 – come risulta dalla documentazione conservata nella curia vescovile di Cerignola-Ascoli Satriano – si svolge una corrispondenza fra il parroco di Stornarella, il vescovo e la Segreteria di Stato vaticana, cui i devoti di Stornarella si erano rivolti chiedendo l’autorizzazione a fare celebrare la Messa nell’oratorio di Domenico. La risposta è negativa, giacché l’opinione trasmessa dal vescovo alla Segreteria di Stato è che “a mio sommesso avviso si tratta di pratica superstiziosa e dell’ammissione di qualche cosa aliena dalla fede e non conforme alla tradizione ecclesiastica, e che potrebbe avere in futuro anche apparenza di guadagno”. A Stornarella opera all’epoca un’associazione laicale denominata “Maria SS. Immacolata del Rosario e San Gerardo Maiella”, non riconosciuta dalle autorità ecclesiastiche, che si propone per statuto di “disciplinare e coordinare le iniziative, la vita di preghiera e le attività di quanti seguono l’illuminato Domenico Masselli”. 
Dopo l’apertura dell’oratorio, il culto extra-liturgico di Domenico è descritto, fra l’altro, nel 1977 dal sociologo Roberto Cipriani che trova nel nuovo tempio “centinaia di persone”. Rispetto al passato, scrive Cipriani, “alcuni momenti sono stati soppressi, altri se ne sono aggiunti, con una cura precipua per tutto quello che può risultare spettacolare, imprevedibile, prodigioso”. Durante la preghiera Domenico rimane rinchiuso nel suo “sgabuzzino”, dove si vedono “fenomeni ritenuti miracolosi: candele che si muovono, un crocifisso che appare e scompare, gesti e movimenti del corpo dell’illuminato che danno l’impressione di una profonda sofferenza”, oltre alle consuete levitazioni. “Di tanto in tanto si vedono pure volare fuori dallo sgabuzzino, lanciati in aria, dei foglietti: sono le richieste di grazia avanzate per iscritto dai fedeli, che si aspettano una risposta positiva dalla Vergine con la mediazione di Domenico” (“Religiosità popolare: due casi emblematici”, IDOC 1977, p. 31).
Nel 1978 si verifica un episodio inquietante. Si presenta a Stornarella un presunto “frate francescano” (non riconosciuto come tale da alcuno degli ordini francescani cattolici), Angelo Chiriatti, un leccese nato nel 1955, che inizia a celebrare la Messa e ad amministrare i sacramenti. Di più: Chiriatti si presenta come “vescovo” e perfino “cardinale”. L’equivoco è di breve durata: Chiriatti è sì “cardinale” – nonché “vescovo” e sacerdote –, ma in una Chiesa scismatica che non è la Chiesa cattolica romana: vanta una consacrazione dall’antipapa lorenese Michel-Auguste-Marie Collin (1905-1974), di cui si tratta in altra parte di questo progetto. L’attività di Chiriatti si inserisce nella fase confusa successiva alla morte di Collin – avvenuta nel 1974, segnata da divisioni e scismi nel gruppo di Clémery – ed è seguente ad alcuni fenomeni soprannaturali e mistici che gli sarebbero occorsi all’inizio degli anni 1970 presso la Cava, in località Surbo (Lecce), segnandone profondamente le successive iniziative. Poco familiari con i “vaganti” e con gli “antipapi”, i poliziotti e i carabinieri della provincia intervengono e arrestano Chiriatti, il 4 dicembre 1978, a Stornarella. Rilasciato, continua per qualche tempo a operare nel leccese, attirando alcuni dei devoti di Stornarella. È peraltro possibile che il gruppo di Stornarella non fosse a conoscenza della complessa situazione dei “vaganti” e degli “antipapi” di Francia, cui si riferiva Chiriatti, già difficile da dipanare per gli specialisti. Peraltro, Angelo Chiriatti ha proseguito le proprie attività, in un ambito che appare tipico del “cattolicesimo di frangia”, ricevendo il sacerdozio cattolico – ma la circostanza è anch’essa non priva d’incertezze, difficili allo stato attuale da sciogliere –  il 9 settembre 1990 dalle mani dell’arcivescovo cattolico titolare di Efeso e già Ministro Generale del Terz’Ordine Regolare di San Francesco mons. Giovanni Enrico Boccella (1912-1992), mutando il proprio nome in Padre Pietro Maria, e dando vita – nel 2003 – all’associazione Figli del Cuore Immacolato di Maria Regina e Madre Nostra, detti anche Missionari di Nostra Signora della Cava, che ha attualmente sede a San Pietro Vernotico (Brindisi). Il 5 febbraio 2009, Angelo Chiriatti è stato nuovamente arrestato dalle forze dell’ordine, in questa circostanza con l’accusa di avere abusato sessualmente di diversi minori.
Di fatto, dopo l’episodio Chiriatti, Domenico Masselli e i suoi seguaci cercano di riavvicinarsi all’autorità ecclesiastica cattolica, proponendo la cessione dell’oratorio purché il venerdì venga loro concesso in uso per il rito, completo delle famose “ascensioni”, cioè levitazioni. Il vescovo considera la richiesta inaccettabile, e l’accordo sfuma. Come aveva rilevato Cipriani nel 1977, “quasi tutti i devoti di Domenico continuano a frequentare regolarmente le attività cultuali della Chiesa cattolica, sia pure con una partecipazione e un impegno ridotti in quanto devoluti alla forma preferita di presenza e di azione religiosa: quella della confraternita di Stornarella”. Il sistema istituzionale cattolico, secondo Cipriani, considerava allora il gruppo di Stornarella come una sorta di “area di riserva”, “in qualche maniera recuperabile ad un consenso generico, per quanto negato e formalmente divergente” (ibid., p. 34). Tuttavia il vescovo monsignor Giovan Battista Pichierri interviene nel 1994 – quando Domenico è ormai prossimo alla morte – perché a sacerdoti delle Diocesi di Trani e di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, che celebrano messe nell’oratorio di Masselli, sia impedito di continuare a farlo. La situazione ha un’ulteriore svolta con la morte di Domenico, il 28 dicembre 1994, avvenuta con il conforto dei sacramenti dopo una visita del parroco, nonostante le antiche divergenze. Dopo la morte, il vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano ha fatto visita ai familiari. Negli ultimi anni il fenomeno sembra attenuarsi sempre di più; il gruppo venera la memoria dell’illuminato, ma si considera ormai pienamente cattolico e chiede al vescovo la Messa nell’oratorio dove Domenico operava, che è concessa ed è attualmente svolta periodicamente.

(da http://www.cesnur.org/religioni_italia/c/cattolicesimo_07.htm)