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Archivio Sonoro

Con il suo senso dello humour, con il suo scetticismo piemontese, con il gusto dell'aneddoto per cui andava famoso, avrebbe riso con me della sua sorte: Roberto Leydi è morto nel tardo pomeriggio di un sabato e proprio di quel sabato in cui si svolgevano a Roma e nel mondo le grandi manifestazioni per la pace. Il giorno dopo e anche il lunedì successivo le pagine dei giornali erano dedicate a quegli eventi e solo nel giro di alcuni giorni i grandi quotidiani hanno commentato la scomparsa di questo singolare e indimenticabile personaggio. Ma si sa, quando la notizia non è più fresca, al massimo si dedicano allo scomparso una colonna o due , anche se, come è accaduto con "Repubblica", le due colonne erano firmate Luciano Berio. Mi diceva un giorno Roberto: «Non bisogna mai morire di ferragosto, non se ne accorge nessuno». Ecco. Ma devo dire che ho trovato su Internet molti e commossi ricordi, da parte di tanti cultori della musica popolare. 
Molti non lo sanno, ma quando cantano sulla chitarra antiche canzoni operaie o contadine, e altri reperti di un mondo ormai scomparso, lo debbono a Leydi, che è andato con insaziabile curiosità e pazienza certosina a registrare quel patrimonio musicale dalla viva voce di testimoni anche vecchissimi. E poi ha fatto circolare le sue scoperte attraverso libri, dischi, e scorribande teatrali per tutto il paese, facendole sovente cantare da sua moglie, quella Sandra Mantovani di cui negli anni Sessanta avevo scritto che aveva un «duende padano».
Di Leydi etnomusicologo si parlerà ancora a lungo. Ma questa attività (che l'aveva portato a diventare professore ordinario al Dams e ad appassionare a questi temi tanti giovani) rappresentava la punta dell'iceberg Leydi. Per quanto mi riguarda, lascio la parola agli esperti, e continuerò a cantare tra me e me le canzoni che ho appreso da lui - e mi rammento che una sera a casa sua ci ha fatto sentire il nastro, su quegli immensi registratori di allora, che aveva registrato non so dove, in qualche balera, dicendo che si doveva prestare attenzione alla voce di quella ragazza ancora ignota, che si chiamava Mina. Vorrei invece ricordare altri aspetti di Leydi. 
Per esempio un anno fa aveva pubblicato "Gelindo ritorna. Il Natale in Piemonte" (Omega edizioni) per cui mi aveva chiesto una prefazione-testimonianza fatta di ricordi personali. In molte città piemontesi, da quasi due secoli si rappresenta a Natale una commedia dialettale, che narra di come il pastore Gelindo e la sua famiglia assistono alla nascita di Gesù, in una zona imprecisa tra il Tanaro e Betlemme. L'unica ricostruzione che si ricordi dei testi originali (ma ormai in vari posti come ad Alessandria, questa rappresentazione per metà sacra e per metà comica, si recita a braccio su canovacci tramandati oralmente, come accadeva per la commedia dell'arte) era "Il Gelindo" di Rodolfo Renier, del 1896.
Leydi è andato alla ricerca dei vari testi, diversi per città e provincia, ha ricostruito la storia del Gelindo, ha ritrovato manifesti, musiche, documenti iconografici, dedicando persino un dotto capitolo alla piva di Gelindo (Leydi era espertissimo di zampogne). La ricerca sembra immane, ma non a chi conosceva Roberto e aveva visitato la sua casa, un vero e proprio museo dell'inatteso. Leydi era un collezionista delle cose più strane, di quelle che la gente non pensa a collezionare, e a giudicare da quello che sto per raccontare lo era sin da piccolo.
Infatti a metà degli anni Cinquanta io ero giovane funzionario della televisione di Corso Sempione e prendevo sessantamila lire al mese. Leydi, che collaborava alla Rai e aveva quattro anni più di me, mi raccontò un giorno che aveva deciso di lavorare sino a che guadagnava trecentomila lire al mese, e poi si divertiva. Se si calcola che entro poco sarebbe apparsa la Seicento Fiat che costava seicentomila lire, trecentomila era un bella sommetta. Come la realizzava Roberto? Affittando dischi alla Rai. C'era bisogno per qualche trasmissione del primo discorso di Roosevelt, della registrazione della celebre trasmissione di Orson Welles sui marziani, della radiocronaca in diretta della tragedia dello Zeppelin, della prima canzone cantata, che so, da Marlene Dietrich? Leydi a casa sua aveva il disco o il nastro. Dove scovasse tutte quelle cose non l'ho mai saputo. Ma lui le aveva.
L'anno scorso ha tenuto per la Scuola Superiore di Scienze Umanistiche di Bologna una serie di lezioni sulla "Musica di Weimar". Ci ha fatto rivivere, attraverso brani musicali sempre originali, commoventi e sublimi nel loro gracchiare a settantotto giri, tutta la storia di un'epoca, collegando Kurt Weill alla musica dodecafonica, alle vicende politiche, alla letteratura dell'epoca. Una esperienza indimenticabile. Con leggerezza, gaiezza, sicurezza di giudizio critico, senso del teatro e documentazione eccezionale, ci ha dato l'ultima possibilità di intrattenerci con lui, conversatore dotto e trascinante. 
Ciao, Roberto, anzi, "ciau".

(L’espresso, 6 marzo 2003)