Può sembrare paradossale che un gruppo nato con una ipotesi teatrale che non ha rinnegato come progetto (tant’è che la porta ancora nel nome) faccia della musica popolare, incida un disco di musica popolare. Tanto più sembrerà paradossale quanto più un certo recupero mercificato di questo aspetto della cultura popolare, la musica, ha inciso nella coscienza culturale, riproponendo l’immagine dei campi separati: musica, ballo, artigianato, cucina ecc. In effetti il recupero ha privilegiato un terreno che si presentava con maggiori opportunità di consumo; è avvenuto su dei fenomeni culturali che si prestavano a fornire prodotti staccati da un vissuto e da un contesto creativi astraendo così, da una complessa realtà socio-culturale di classe, un’immagine artificiosa di "prodotti" atti ad essere posti su un "mercato" che li scambiasse come "consumo", secondo la logica dominante: quella stessa che si vuole presentare come unica logica, la logica del mercato capitalistico.
Il paradosso sta nell’accettare questa come unica logica esistente, con le conseguenze ideologiche che ne derivano. Nella realtà il gruppo ha percorso le tappe di una sperimentazione teatrale maturata in una città meridionale, stimolata dalla conoscenza di quanto si andava facendo altrove, fuori da esigenze e condizionamenti professionistici e tentando di affermare una autonomia espressiva, legata al territorio della propria esperienza. (La città è un insieme di ghetti-territoriali, sociali, culturali. Le tappe della maturazione avvenivano all’interno di uno di questi ghetti, quello della comunicazione intellettuale).
E' passata per la ricerca di cantina, con un rapporto col pubblico tradizionale in una successione di rispecchiamento-negazione del rispecchiamento; per l’uscita dalla cantina e l’incontro col quartiere, soprattutto con un’attività di animazione teatrale, in uno scontro con un vissuto quotidiano, che non era quello del collettivo e che, sotto uno spessore di massificazione, lasciava trasparire un rimando culturale diverso. Nello stesso tempo si sviluppava un incontro con alcune componenti dell’Università di Salerno, in particolare con le cattedre di Antropologia culturale, Lettere e Storia del teatro e dello spettacolo, Magistero e Lettere, che perfezionava la maturazione e limitava lo spazio a velleitarismi.
Un primo spettacolo di musica popolare, la Ricerca 1, utilizzava materiali riproposti e adattati da folksingers e in gran parte non tratti dalla realtà geografico-culturale vicina. Questo confermava in maniera sottile il ghetto culturale dentro il quale si operava: anche in un momento di rottura culturale, di apertura a un nuovo vissuto, la elaborazione produttiva ripeteva gli schemi presenti nel ghetto, secondo un canone di comunicazione culturale intellettuale. La contraddizione era tale che non poteva non esplodere: l’antico metodo di scoperta del reale negava la stessa realtà che andava scoprendo.
L’asse portante della ricerca del gruppo mai più relegato e irrinunciabile divenne la ricerca sul campo - metodologia di confronto con una cultura diversa - per la individuazione di un suo ruolo specifico nel territorio. La conseguente elaborazione non poteva essere uno spettacolo o almeno, in una prima fase, non poteva esserlo da solo. Si trattava di ridurre lo spessore della parete del proprio ghetto, di renderlo trasparente all’altro, prima che l’uso mercificato del folclore non rendesse questo un prodotto incanalabile in ogni ghetto. Si trattava altresì di rompere l’isolamento della cultura che si veniva indagando fornendole un nuovo tramite di comunicazione, stimolando nuovi momenti creativi e comunicativi sulla base del vissuto quotidiano.
La sintesi, l’obiettivo, il progetto era sempre quello di lavorare per una totalità dell’atto politico, troppo spesso separato dal vissuto, condizionato dai mass media, negato nel suo rapporto con le radici culturali. Con la consapevolezza, allo stato della ricerca comune, che quella era l’unica strada aperta per evitare di ricadere in una comunicazione settoriale o peggio nell’assenza di comunicazione, l’unica strada da percorrere fino in fondo anche a rischio di profonde lacerazioni, il gruppo si è rivolto, da una parte, al tradizionale pubblico con strumenti elaborati di volta in volta, per comunicare la radicale presenza dell’altra cultura (superata l’antica coppia rispecchiamento-negazione del ripecchiamento), dall’altra, si è espresso con il nuovo pubblico, non più pubblico, ma aggregato sociale che andava contattando nella ricerca sul campo, in un rapporto di scambio stimolante e creativo per entrambi, in una successione di azioni difficilmente definibili con il tradizionale linguaggio dello spettacolo, fossanche partecipativo, se non al prezzo di falsarne la portata.
Questa attività appare difficilmente configurabile nella sfera d’azione e nelle finalità del tradizionale folk-music revival. Così la scelta di una limitata area geografico-culturale di indagine e rapporto, per una tensione a comprendere i ruoli dei momenti espressivi nel contesto comunicativo in cui vivono, più che raccogliere i materiali per una riproposta di rigore filologico o di mediazione politica, nelle migliori operazioni, se non per un uso consumistico o borghese cui per tanta parte il folk-music revival si è prestato. Così la conservazione del progetto teatrale d’origine, dove però l’oggetto che è sotto la parola “teatro” diveniva traboccante tanto da rompere la delimitazione tradizionale e porre il problema dell’antropologia comunicativa. Questo progetto così ambizioso e in parte utopico, che rompe con le divisioni di campo che confermano i ghetti e pone il problema della totalità, costituisce la pratica decisiva del gruppo. La ricerca sul campo diviene non un fatto che sta prima dell’azione specifica del gruppo, un rinvenimento e catalogazione di materiale da riproporre o studiare, o non solo questo; essa diviene l’attività privilegiata sulla base di uno scambio di gruppo a gruppo, da punti di partenza culturalmente diversi, ma senza complessi pupulistici di inferiorità, in una comune condizione di subalternità l’uno, un gruppo di base isolato e non istituzionalizzato, dagli ambiti comunicativi limitati dal ghetto e dal mercato; l’altro, una componente di una vasta classe di esclusi, sfruttati, negati.
Il collettivo, ambizione utopica e in qualche modo velleitaria della primitiva ricerca sperimentale sul teatro, diveniva la dimensione essenziale ed insostituibile di una attività che non era del ricercatore specialistico, né del falco di mercato, ma la struttura di una nuova ricerca pratica di gruppo per il cambiamento. Ciò che era velleitario nel ghetto offriva, fuori di esso, la possibilità fondamentale della comunicazione culturale diversa, quella per gruppi omogenei, al di fuori del dominio del mercato che vuole individui atomizzati di fronte al prodotto, i consumatori. Né d’altra parte si è pensato di abbandonare le proprie radici culturali e il tradizionale termine di raffronto, il pubblico intellettuale.
La difficoltà sta nella elaborazione di un linguaggio non ghettizzato che eviti la trappola della rarefazione senza essere banale e immediatamente consumabile, che riproponga l’omogeneità laddove il mercato la neghi e rifugga l’omogeneità che il mercato forma; ma questa è la difficoltà di definire lo spazio di una nuova cultura costruita sull’unità e sul progetto politico di tutte le classi e i gruppi antagonisti della società. Ma tutto questo è in contrasto con la raffinata tecnologia del disco che fa giustizia della diversità e vuole il prodotto omogeneo e il momento unico. Più in generale, perché un disco? Non è esso un oggetto di quel mercato che si proclama di contrastare? Il disco non è passato senza scontro nell’esperienza del gruppo, che ha colto nel suo allestimento la sensazione di un passaggio da una esperienza originale ad una riproposta filologica che avviliva le stesse peculiarità del gruppo. Si è trattato però solo di sensazione di rischio, non di coscienza di tracollo. Se la tecnologia non è neutra, essa non è neppure completamente asservita al mercato: fronti di lotta sono aperti per l’uso sovversivo della tecnologia.
Il Teatrogruppo
[dal libretto allegato al disco Musica Popolare del salernitano, ed. Abatros 1975]